L'insostenibile visione dell'essere Aprile - Settembre 2010
A distanza di un quarto di secolo la Galleria De' Foscherari ripropone, facendone il momento centrale di una esposizione costituita da tele di grande dimensione e acetati, le polaroid di Piero Manai. Tale centralità, sottolineata anche dalla quantità e varietà di foto attentamente selezionate e criticamente allineate (parte preponderante delle quali inedite), ha un suo fondamento teorico rispetto all'opera complessiva dell'artista. La fotografia, infatti, come molti hanno osservato, può considerarsi alla base dell'operare artistico di Manai, un elemento imprescindibile per comprendere il significato profondo delle sue grandi teste, dei suoi corpi mutilati o feriti, delle sue maschere, ma anche dei macigni, dei “pesi” e dei paesaggi. Ripercorrendo in qualche misura l'evoluzione delle avanguardie storiche, Manai parrebbe aver preso le mosse dall'Africa, cioè dall' “altro” rispetto alla cultura occidentale bianca, ed essere stato folgorato, come a Parigi gli avanguardisti del primo Novecento dalla grande mostra dell'arte africana, dalle fotografie della Leni Riefenstahl dedicate a varie tribù del Continente nero. Lo straordinario reportage fotografico della famosissima documentarista tedesca, che mostra i corpi seminudi degli indigeni, a volte bellissimi, ma con l'aria sofferente, costituisce senza dubbio un ineludibile punto di riferimento per il nostro artista. In particolare quei corpi, pur vigorosi, ma con l'organo sessuale avvolto in un penier apparentemente costituito da bende, quasi uomini feriti nella loro virilità.
La fotografia antropologica, dunque, al posto delle sculture africane, innesca la ricerca di Manai attraverso la pittura. Sottolineo attraverso la pittura perché per Manai la pittura non ha come fine la bellezza, non a caso alcuni hanno parlato di anticlassicismo o aclassicismo per il Nostro, ma la ricerca di ciò che sta al di là della pittura intesa come rappresentazione o, meglio, al di là di ogni possibile rappresentazione, cioè al di là dell'universo visivo contemporaneo (cinema, teatro, televisione ecc). Ma andiamo con ordine, l'analogia con le avanguardie storiche è soltanto lo scatto iniziale di un percorso, al quale possiamo associare anche i reperti di una classicità remota, che vede Manai attraversare l'arte del suo tempo, in particolare le neoavanguardie, il concettualismo, le grammatiche del corpo, la pop (basti pensare, per il tutto, i bellissimi barattoli e le straordinarie matite) senza identificarsi con nessuna di tali tendenze.
Lo abbiamo già accennato, la pittura per Manai, è uno strumento di ricerca (si potrebbe dire, come è stato detto, sperimentalismo), ma non una ricerca linguistica, né tanto meno una ricerca scientifica, bensì una ricerca ontologica. Se l'arte costituisce una rappresentazione della realtà, una rappresentazione del mondo, Manai vuole andare oltre la rappresentazione, arrivare alla “cosa” rappresentata, all'essenza della realtà e del mondo, a ciò che sta dietro o sotto o al di sopra dell'apparenza e ne costituisce l'essenza profonda. La pittura è lo strumento privilegiato di tale ricerca, lo strumento che consente di intuire le tracce dell'essere e di rivelarle vivamente.
Un compito immane, estenuante, che logora il ricercatore anche fisicamente, un compito al quale la fotografia, anzi quella particolare tecnica fotografica che è la polaroid, può dare un notevole contributo. Vale la pena ricordare che Manai usava il modello più semplice di polaroid, la XX70, e di essa diceva: la uso “perchè la polaroid riporta la fotografia alle sue origini. Non avendo negativo, la foto scattata è un pezzo unico, è come un dagherrotipo, è un unicum, c'è solo quello”. E' interessante notare che la polaroid, allora la più evoluta delle macchine fotografiche, riportava la fotografia, alla cui invenzione può essere fatta risalire l'epoca della riproducibilità tecnica, all'aura del pezzo unico, esattamente come un quadro. Ma non solo per questo Manai usava ossessivamente la polaroid, bensì anche per l' immediatezza, lontana dalla pittura (ma non troppo, basti pensare all'influenza della fotografia sugli impressionisti), con cui si può fissare la realtà. A proposito di realtà, richiamo uno dei protagonisti della storia del cinema, Dziga Vertov. Affermava il grande regista russo che il cinema deve cogliere la realtà in flagrante e a tal fine egli stesso e i suoi kinoki andavano in giro a “rubare” immagini con la cinepresa. Ma la realtà rivelava la sua flagranza, cioè la sua assenza, solo attraverso il montaggio, vale a dire con l'accortamento di immagini diverse secondo un modello intellettuale. Analogamente, Manai fissa la realtà con la polaroid, e già quell'inquadratura è un unicum, poi al posto del montaggio usa i pennarelli o altro per estorcere dalla rappresentazione fotografica l'essenza che continua a nascondersi dietro l'apparenza. Anziché uno sviluppo e una stampa chimici, come avviene per le normali fotografie, l'artista usa la sua perizia manuale, la sua capacità pittorica, per rivelare la realtà profonda e invisibile all'occhio dell'immagine catturata. Ecco gli autoritratti, con o senza maschera, le maschere (giustamente è stato citato Ensor), i volti, i corpi, gli artisti, le opere da lui dipinte o disegnate, i carboncini e gli acetati, gli amici, la fenomenologia del suo universo quotidiano segnato leggermente o quasi interamente coperto dal colore per lasciarne emergere qualche frammento. L'intervento pittorico, come il montaggio per Vertov, segue un modello intellettuale che trasforma il guardare in vedere. E' noto, infatti, che si guarda con gli occhi, ma si vede con il cervello, cioè con l'intelletto, e Manai, va oltre la percezione fenomenica dell'occhio per cogliere i frammenti dell'essere, i reperti dell'origine, attraverso la pittura.
Di qui la centralità delle polaroid in questa mostra, l'esemplificazione più evidente di tutto l'operare di Manai, una creatività intellettuale tesa spasmodicamente, ad oltrepassare la realtà così come appare e si presenta per rendere visibile qualche sprazzo dell'essenza del mondo