MARIO CEROLI - LA PORTA DELL’INFERNO

La porta dell’inferno

Mario Ceroli

con un testo di Luigi Ficacci

16 dicembre 2023 - 28 febbraio 2024

La mostra, che è cambiata molte volte durante la sua preparazione, e che è destinata a continuare a mutare durante il periodo l'esposizione, si  presenta in questa prima scena, come uno sbarco, dalla nave di Caronte , di figure prodotte dall'artista con scarti negativi di opere precedenti, sullo sfondo di un  grande e breve amore. Le opere , tutte inedite o quasi,   sono state realizzate tra il 1972 ed il 2023.

Artista poliedrico e mercuriale, scultore, scenografo, creatore di oggetti ed ambienti, Mario Ceroli è una delle figure più significative tra quelle emerse nei primi anni '60 dello scorso secolo. Autore del proprio ambiente di vita, Ceroli ha raccolto sin dai primissimi anni i suoi lavori più significativi in un grande studio alle porte di Roma, dove con il tempo ha costituito anche la sua stabile dimora, recentemente aperta al pubblico e visitabile. Le oltre 1700 opere, molte delle quali di grandi dimensioni, sono disposte, in continuo mutamento, riconfigurazione ed accrescimento, in questa sorta di cittadella ideale con tanto di piazza, strade e statue equestri, popolata di angeli, mostri, ombre, pendoli, piramidi, cubi, stacci, animali , macchine ed esseri umani. Ceroli ci invita dunque a varcare la porta dell'inferno, forse per entrarvi o forse per uscirne o magari per farvi ritorno, per tornare altrove, per andare qui.

La sagoma di uomo corre a precipizio, proiettata nella sua traiettoria dinamica. E’ la forma in legno che, nello spazio bianco di vetrina della Galleria, capta l’osservatore e lo immette nel vivo artificioso dell’universo figurale di Mario Ceroli. Così accade a ogni manifestazione della sua opera. La Galleria de’ Foscherari dal 2002 si affaccia su via Castiglione, inserto di bianco modernista nel calore dei mattoni della Bologna di sempre, dalla temperatura di gotico e rinascimento rinnovati alle soglie della temuta età moderna, proprio per voltarvi le spalle. Così fece Bologna lungo i decenni dell’Ottocento e successivi, fino a quell’improvviso slancio progressista a metà Novecento, maturato in clandestinità sotto i colpi dei bombardamenti e poi condotto con equilibrio e determinazione nel dopoguerra, fino all’esplosione dei suoi effetti, ai primi anni Sessanta. Allora Bologna si rivelò improvvisamente come la città più solidamente orientata verso il progresso. La Galleria de’ Foscherari ne conserva ancora la pacata radicalità alternativa, testimone dell’unico folgorante momento di desiderio della Città verso il proprio tempo, quando fu aperta, nella Galleria Cavour, a sua volta inaugurata come un happening urbanistico, un anno dopo l’avvenirista Mottagrill di Cantagallo, a cavaliere della nuova autostrada del Sole, in corso di esecuzione. Allora, dal suo sfiduciato conservatorismo, Bologna risultava proiettata in testa alla modernizzazione del paese. Era il 1962 e la congiuntura eccezionale e inedita.

La vetrina bianca in Castiglione conserva oggi testimonianza e stile e tenuta delle sue origini, in un contesto però divenuto ignaro, alla deriva, nell’inconsapevole urbanistica degli interessi e dei profitti, di cui andare appagati, se non fieri e premiati, com’è tendenza generale delle città; non solo delle italiane. Nella vetrina bianca, sobria nel suo richiamo di fiducia modernista, la sagoma corre, protesa nella propria convinzione, singolarmente irresistibile, euforicamente giovane e divertita. A volersene accorgere, essa demolisce la polvere della città. E’ il ritorno di Ceroli alla Galleria, con la freschezza dell’esordio. Appena varcata la soglia, lo spazio è però sbarrato da due sagome frontali, piatte, sorde; meno che figure, tavole; di una sembianza stilizzata alla più brutale insensibilità; stanno come porte, chiuse, dell’inferno. All’origine, forse qualcosa di crudelmente reale visto dall’artista in qualche costa del nord Africa, fabbricazione maledetta di barche per la peggiore tratta di umani, assemblando legni pesantissimi, portatori indifferenti di probabilità di naufragio e morte. Trasfigurata, secondo il proprio procedimento linguistico, in arte, questa esperienza esistenziale, si conforma in dramma allegorico di verità, entrando direttamente nella dimensione della tragedia umana. E’ il processo artistico più classico della civiltà europea, identico dall’antichità all’attualità. Poi, oltre l’ostacolo terribile dei guardiani che ne precludono l’entrata, si compone e agisce nello spazio un gruppo di sagome, costruite con scarti di tavole profilate per altri lavori. Per questa particolarità tipologica, il funzionamento della loro bidimensionalità risulta animato da un meccanismo di speciale drammaticità. L’insieme che risulta da questa composizione di figure, orientate verso una direzione comune, ha la composta apparenza di una coreografia, dall’effetto di lento, monodico, corale. E’ La barca di Caronte, che occupa col proprio ingombro scenico l’area centrale della Galleria, lasciando spazio alle proprie spalle.

I due ambienti liberi che ne risultano, mostrano opere a parete. Lamiere in fogli contorti, dall’aspetto di superfici cromatiche tormentate. Sono quattro composizioni il cui materiale, la cui idea iconica, proviene dalla struttura della barca, come se questa, dalla propria costruzione malconcia, avesse perso parti; lamiere appunto, che dall’entità di frantume disperso, traggono, così esposte nella loro irregolarità sul muro bianco, prive di qualsiasi corniciatura, l’emergenza di una superlativa espressività pittorica. Come in sviluppo di variazione, circondano e introducono una loro acme, esposta sulla parete conclusiva, dove il detrito laminare, trattato assecondando artisticamente la casualità del suo degrado, si sovrappone ad un campo dipinto in intenso blu oltremare, componendosi con la sua risonanza cromatica e con la sostanza oggettuale di un ramo contorto, come un corallo combusto: scultura naturale dipinta. Questo tema, foglio di lamiera e legno su tavola dipinta a pigmento blu fondo, cioè frantume di natante, corallo e mare, si svolge sulle quattro pareti di una terza stanza, ordinato nella essenziale compostezza di una perfezione di genere pittorico. Ripercorrendo il percorso a ritroso e invertendo così il punto di vista, La Barca di Caronte, vista alle spalle, in una prospettica negazione di prospettiva, evidenzia vieppiù il suo lento muovere, benché sia installazione scultorea materialmente ferma, in direzione della parete opposta, allestita con i fogli della sequenza numerica di Un anno d’amore, opera culmine del processo che dall’entusiasmo euforico di esistenza giungeva alla semplicità gioiosa e giocosa di una ragione universale. Allora, l’agitazione dell’umanità di legno che circonda la barca, disordinata in dissonante recitazione sincronica, anche spinta e forzata nell’esasperazione della propria artificiosità pare venire condotta, perfino liricamente, verso l’orizzonte di felicità della serie di fogli bianchi segnati a carboncino con la numerazione del tempo, speranza bianca di vita migliore.

La logica, che consente a Ceroli, di buon’ora, quasi dai suoi inizi, di esprimere grandi sentimenti e temi e attingere all’universale dei valori massimi, con la freschezza e la levità di una strutturale sensibilità contemporanea e un sontuoso impiego di elementi semplici ed elementari, si basa sul ricorso, spontaneo come per intuizione naturale, a procedimenti intrinsecamente classici. Quei caratteri fondamentali della civiltà latino europea che potevano arrivare all’attualità per la forza di un tramando diffuso di elementi di generale coscienza di cultura. Induttivamente, è l’allegoria, per Ceroli, uno dei modi determinanti e distintivi. Strumento arduo, per la sapienza e la fondatezza che richiede; a rischio, in assenza, di mistificazioni o slittamenti nelle falsità dell’anacronismo e nell’inconsistenza. Ma è strumento che Ceroli possiede con maestria inflessibile, per la forza di necessità che lo muove e la schiettezza dell’approccio. Sono le qualità evidenti dal suo esordio, che da allora costituirono un’acquisizione critica riconosciuta e apparentemente definitiva, ma che invece richiede rinnovate decodificazioni in relazione allo scorrere del tempo e mutare di significati, al fine di realizzarne la rarità, quanto la pertinenza rispetto a inespresse e confuse esigenze del presente. Non sarà la dinamica di una lineare evoluzione stilistica a riuscire a spiegare Ceroli e l’ingegnosa meraviglia che ad ogni manifestazione della sua opera sorprende. Di fatto non una delle forme del suo discorso allegorico odierno è di nuova invenzione; nuove possono essere le variazioni ed esecuzioni materiali, ma se gli elementi formali e i loro concetti generativi sono concepiti sostanzialmente all’origine della propria arte, o comunque raggiunti già agli inizi, come germinazioni raggiunte dall’inizio del discorso artistico, nessuno è predefinito e la necessaria ricorrenza non si configura come ripetizione. Sconosciuto, soprattutto, è il loro spettacolo. Questo momento significante è creato dall’Artista in gran parte nella fase empirica dell’allestimento. Perciò, il più autentico e profondo elemento d’innovazione è per Ceroli la modulazione delle sue figure prime. Personali archetipi, dotati di una garanzia di verità basilare; perciò non soggetti a divergenze; queste, nel caso, si manifesterebbero quali sbandamenti. Lo sviluppo della loro vitalità creativa consiste nella continuità della loro rinascita, quali esiti artistici degli impulsi, sollecitazioni, occasioni, provocazioni del mondo esterno, quelli davvero variabili e imprevedibili all’infinito. Assemblando, variando, reinventando sembianze, forme, dimensioni, apparenze, situazioni di spazio, riponendo l’originalità nei percorsi connettivi, l’allestimento è un atto creativo, nell’estetica di Ceroli, nella fisiologia del suo lavoro. Esso non è mai consistito nella sola presentazione dell’opera, nella sua esposizione definita e chiusa in una propria isolata oggettualità figurale, che Ceroli stigmatizza come “cose da museo” e pertanto allontana dal suo lavoro.

L’arte dunque si manifesta per Ceroli in circostanze determinate, necessarie per la sua realizzazione completa, in un sentimento di complessità universale cui la sua incoercibile impostazione umanistica, classico rinascimentale per forza intrinseca del suo operare e mai per citazione suggestiva, lo costringe. La Galleria è una delle circostanze necessarie richieste dalla sua estetica, perché è il luogo potenziale non della esposizione ma della realizzazione spettacolare dell’arte, laddove lo spettacolo comporta un’intensificazione del guardare e non richiede solo osservatori, ma spettatori, appositamente convenuti, fisicamente quanto emotivamente partecipi. Così la spettacolarità dell’arte assume intrinsecamente per Ceroli i modi della teatralità. Allora, tornare alla Galleria è la circostanza essenziale per il raggiungimento della semplicità elementare, indispensabile per la sua esigenza artistica, la quale, più che professione, più che espressione, è condizione, necessaria e vitale.







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CONTRAPPUNTI PER GERMANO SARTELLI

I ATTO - 29 ottobre - 10 dicembre 2022

II ATTO 16 dicembre - 18 Febbraio 2023

La galleria de'Foscherari è lieta di annunciare, Contrappunti per Germano Sartelli, una mostra in due episodi che attraverseranno l’intero arco della ricerca di uno dei più fertili e inventivi artisti italiani del dopoguerra.

I due tempi, il primo che inaugurerà Sabato 29 Ottobre alle 18, ed il secondo Venerdi 16 ì Dicembre, offrono un ricco spaccato dell’opera di Sartelli e della sua avventura creativa, espressa nella lingua della pittura, e nei territori della ricerca plastica. Due episodi esplorano ognuna un ambito specifco ma mostrando come, nel lavoro di Sartelli, queste due direttrici costantemente si intreccino.

Affrontando la pittura, non mancheranno gli elementi scultorei o oggettuali, ci troviamo, infatti, di fronte ad un approccio che si esprime, a partire dalla seconda metà degli anni 50, attraverso una tavolozza inusuale e poetica, fatta di elementi naturali come ragnatele, insetti, foglie , fori, feno o artifciali come mozziconi di sigarette, resti di sacchi di cemento, barattoli di latta e frammenti di rottami ferrosi , fno ad arrivare a veri e propri oggetti d'uso, come sedie , tavoli, taniche di benzina, velati da fogli di vetroresina o vetri zigrinati.

Quelli scelti da Sartelli sono tutti elementi molto semplici e alla mano, famigliari, ma anche esausti, consumati, morti; raccolti dai posacenere, dalla terra autunnale, sotto gli alberi e nei campi, tra gli angoli, in cantina, tra i rifuti. Questi relitti esistenziali, questi poveri elementi, prelevati con naturalezza dal proprio semplice, umile, intossicato vissuto, non sono però gravati dal senso tragico della fne, ma anzi impiegati per la loro naturale bellezza, in delicate e poetiche composizioni , con l'intento, di restituirli, attraverso l'arte, alla musicale armonia della vita.

Seconda parte: 16 dicembre 2022 - 18 Febbraio 2023

Fa ingresso prepotentemente, nella seconda stazione della mostra di Sartelli ordinata dalla nostra Galleria la scultura e non poteva che essere cosi, se non tramite l'offerta di un pensiero, di una visione, di una lingua che sono stati per l'artista, fino dai suoi esordi, un motore costante di ispirazione e un territorio di esperienza incessantemente esplorato.

La scultura che si presenta e si esalta nei preziosi ricami delle prime prove vogliose di traforare e disegnare lo spazio, nei ciocchi di legno impaginati e composti sul confine in cui scultura e pittura si corteggiano, pronti in ogni momento a scambiarsi le parti e a lasciarsi il passo, nella foresta “gotica” e notturna delle lance di ferro drizzate verso il cielo, nello spartito aereo di una falce di luna catturata da una maglia di rete e dal volo di frammenti di latta colorata e infine negli oggetti qualunque strappati al quotidiano per essere trasfigurati, rimodellati, entro una nuova “casa” governata dalla luce, in corpi evanescenti, in soffi delicati, in impalpabili carezze dello sguardo.

E' una antologia di opere, necessariamente breve, quella che si inaugura venerdì 16 dicembre alle ore 17, che corre dalla fine degli anni Cinquanta al tempo finale della ricerca di Sartelli, che volutamente coincide con l'occasione dell'ultima mostra personale che la nostra galleria ha dedicato nel 2009 ad un artista che ha insaziabilmente amato e che mai cesserà di celebrare.

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SOPHIE KO - ILRESTO DELLA TERRA

IL RESTO DELLA TERRA - 9 OTTOBRE 2021 - 28 FEBBRAIO 2022

Il mondo intermedio

Henry Corbin è stato forse il più grande studioso della tradizione sufi e della sua complessissima cosmologia metafisica. In un passo abbastanza noto, dedicato alla tripartizione del mondo, Corbin giunge ad individuare la necessità di un mondo intermedio tra quello materiale e quello della pura trascendenza. Un mondo intermedio, cioè, nel quale si aprirebbe la possibilità di una forma di conoscenza che non sia né solo affidata ai sensi né solo all’astrazione intellettuale. Il mondo intermedio sarebbe, dunque, «un mondo soprasensibile, che non è né il mondo empirico dei sensi né il mondo astratto dell’intelletto». Un tale mondo, frequentato solitamente dai poeti e dai saggi, è uno spazio definito dalla dimensione dell’immaginale, cioè da una visione che non si esaurisce né nella semplice immagine né in un vago uso dell’immaginazione. L’immaginale si rivelerebbe piuttosto come il luogo dell’apertura dell’immagine a ciò che va oltre di lei. È come se nella terra di mezzo, detta anche mundus imaginalis, il mondo materiale iniziasse il suo processo di smaterializzazione per inoltrarsi verso ciò va oltre la materia. Chiaramente, un tale processo di liberazione avviene attraverso una disciplina molto rigida, quella che potremmo definire una vera e propria arte dell’immaginale, un addestramento dello sguardo capace di portare gli occhi oltre la semplice percezione in direzione di un’autentica visione.

Ora, la questione che potremmo porci è se l’arte visiva, così come la grande poesia o i testi estatici della mistica di ogni epoca e di ogni latitudine non siano segni di questo mondo intermedio, di questa terra di mezzo o, detto altrimenti, di quel che resta della terra quando non è più solo terra.

L’arte, in tutte le sue forme, è ciò che si deposita – il resto – della terra quando la terra si apre alla sua dismisura, alla sua trascendenza, al suo eccesso di senso.

Guardando le opere di Sophie Ko si ha la netta sensazione di questo trascendere della materia. Si tratta, da sempre, di ceneri e di resti incombusti, di pigmenti e di oro che si compenetrano. Di terra che si fa figura geometrica (Il raccolto); di bruciature che rendono incandescente lo sguardo sull’attualità del mondo.

Quando Dio creò Adamo, lo fece a partire dalla terra. Con la terra che gli rimase, narra Ibn ’Arabi, uno tra i più importanti teosofi sufi, Dio creò “la sorella di Adamo” e Hurqalya, la terra intermedia, il mundus imaginalis, la terra della Vera Realtà: lo spazio, cioè, di una visione più reale della realtà, composto di una materia sottile, una materia altra, in cui ogni uomo potesse vedere la propria vera immagine, il proprio vero destino di trascendenza, di oltrepassamento di sé. Quando Sophie Ko ci pone davanti a tre finestre, a tre aperture, non si richiama solamente all’archetipo stesso dell’arte occidentale – “qui solo, lassato l'altre cose, dirò quello fo io quando dipingo. Principio, dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto”, Leon Battista Alberti nel De Pictura – ma ci pone anche di fronte alle finestre della percezione in cui la materia va oltre se stessa. Terra, sassi, foglie, erba, carta, cenere di immagini bruciate, resti incombusti sono la materia stessa dell’umano e delle immagini che lo portano sul ciglio di un abisso, al limite di una visione insostenibile. Le immagini, nell’epoca della riduzione del mondo alla pura materia, bruciano, si distruggono e non lasciano che rari frammenti incombusti. Nella furia delle immagini l’uomo si acceca e sprofonda nella notte (L'uomo è questa notte). Forse, solo nella terra di mezzo (Il rezzo della terra) esiste ancora una possibilità di ancoraggio, non tanto alla terra ma a quello che resta della terra, quando la terra si fa visione, apertura, finestra.

E questo spazio liminare, questa dimensione di transito nella materia e di movimento della materia, fatto di crolli e smottamenti, è sicuramente presente in Metaxy, la grande composizione di otto elementi che si richiama al “concetto mitico”, ossimoro fondante della metafisica occidentale, che tanta parte ha nella cosmologia di Platone. L’avverbio μεταξύ sta ad indicare ciò che risiede nell’intervallo, che si pone in mezzo. Nel Simposio si identificherà con il δαίμων (il demone) di Eros messaggero tra gli uomini e gli dèi. Da qui verrà poi, attraverso l’ibridazione tra platonismo e sapere biblico, tutta la miriade di angeli, demoni, arconti, uomini di luce, ecc. della tradizione gnostica e delle sue emanazioni nelle multiformi eresie delle religioni del Libro, così come nell’ermetismo alessandrino e poi rinascimentale. Il pigmento puro, ricoperto di oro, lascia presagire antichi pannelli, ormai quasi illeggibili, della più alta pittura di icone o dei fondi oro rinascimentali. Anche qui, è quel che resta di una tradizione quasi scomparsa.

Da sempre, Sophie Ko, si mette alla ricerca dei resti di mondi remoti, inattuali, dimenticati. Il suo gesto artistico rimesta le ceneri tra le ceneri di una civiltà e, proprio per questo, appare come avulso dall’oggi, dal suo sperimentalismo d’accatto. Si ripete, Ko, perché in fondo è alla ricerca di quell’immagine immobile dietro al crollo di ogni immaginario metafisico. Se c’è un filone dentro il quale l’opera di Sophie Ko si pone è quello che va dagli affreschi di Beato Angelico nei corridoi del convento di San Marco a Firenze e, in particolare, i quattro pannelli dipinti con una pioggia di pigmenti spruzzati sulla parete e, in apparenza, privi di soggetto, e arriva, passando da una serie notevole di visionari di ogni epoca, ai pigmenti, le ceneri e le combustioni di Claudio Parmiggiani. Detto in altri termini, Sophie Ko si definisce e si comprende all’interno della lenta e progressiva dissoluzione dell’immagine dell’Assoluto, della sua impossibilità di rappresentazione, proprio attraverso il processo storico di riduzione del mondo ad immagine. Quando l’immagine diventa il linguaggio stesso del reale, allora per rappresentare, per dare immagine di ciò che immagine non è, occorre ritornare agli elementi primari, alla dimensione di apertura della materia pittorica, ai gesti primordiali: il fuoco, la luce, l’oro che brilla di luce propria. In fondo, Ko è agli antipodi del secolo, guarda quello che nessuno vede. Cerca l’immagine dell’invisibile.

Questa tensione verso l’immagine dell’Assoluto indica, dunque, un’indifferenza verso la realtà? No, direi che nel lavoro di Sophie Ko è, da sempre, presente un’attenzione profonda al mondo, a quello che potremmo chiamare, sempre seguendo Corbin, il primo mondo, quello della materia e dei sensi, quello della fame e del dolore, così come quello del piacere e delle piccole gioie che il quotidiano esistere porta con sé. Lacrime su fuoco sono esattamente indice dell’atroce dolore che deriva dal vedere, la lacrima dell’occhio, di cui solo l’umano è forse davvero capace. Vedere il dolore del primo mondo, la sofferenza inaudita di corpi dispersi nelle acque, dimenticati e non visti, di questo dolore testimoniano le lacrime di fuoco. E’ l’esperienza del kenoma, di quella sorta di vuoto cosmologico, che, attraverso una ripetizione del ciclo nascita-morte, gioia-dolore, getta l’uomo nell’insensatezza della vita. Ma non esiste, nella visione di questa sophia dello sguardo, che vediamo nelle opere di Sophie Ko, una netta e impermeabile separazione tra il vuoto di senso del kenoma e la pienezza di senso del pleroma. Non parla di un altro mondo, l’arte di Ko, se non sempre a partire da questo mondo. Non volta le spalle al mondo alla ricerca esclusiva di ciò che lo trascende. La carta dissolta dalla purezza del fuoco, la vista ustionata dalla lucentezza della fiamma mostrano, sotto altra luce e con profonda pietà, la cruda realtà del mondo. Il gioco del mondo, la battaglia navale giocata sulla vita inerme e offesa, deflagra la dimensione del senso, la compostezza dell’immagine. Resta solo la crudezza. Ma anche la crudezza, anche il dolore estremo, non è privo di un legame all’immagine assoluta. E così, le cornici che contengono l’insensato gioco del mondo richiamano l’oro verso cui ci porta la metaxy. I tre mondi sono legati tra di loro. Incomprensibili gli uni senza gli altri. Non si tratta di astrarsi dalla realtà, ma di guardarla con altri occhi, in un processo di ascesa e discesa interminabile. Non c’è salvezza se non portando con sé tutto il mondo, tutti i mondi; se non vedendo, mostrando, l’intimo legame che tutti li lega.

In fondo l’arte, è questo interminabile incamminarsi sulle vie tortuose di una liberazione dalla greve materia di questo mondo attraverso la greve materia di questo mondo. Ogni grande opera è gravida della nostalgia di un mondo di cui abbiamo solo un’immagine sbiadita, di un mondo che ci precede e che forse ci attende e la malinconia profonda che deriva dall’attaccamento a questo mondo in cui siamo stati gettati. Sapere stare in bilico tra questi tre mondi è il segno di un tentativo disperato. Le opere d’arte incarnano, danno un corpo, a questo esercizio di equilibrismo, all’interno di una gnosi, una conoscenza, immaginale. Il mondo immaginale o mondo intermedio è il luogo dell’arte.

Un battito d’ali (Battiti d’ali) è questo, un’autentica immagine. Di chi siano le tracce di questi battiti catturati dall’artista, davvero non è dato sapere. Forse degli angeli che abitano la terra di mezzo. Forse degli spiriti di coloro a cui questo primo mondo, fatto di terra e di carne, è stato sottratto, spesso con la violenza. O, forse, più semplicemente, di una farfalla che non ha bisogno di vedere la luce oltre il mondo, perché già la porta, inconsapevolmente, sulle proprie ali. All’uomo, fin dalle sue origini, non è stato dato davvero di sapere, ma solo di procedere nel buio, alla ricerca di una luce. Scintilla pleromatica, pura energia caduta nel tempo e dispersa nel creato, quando Dio si ritirò dal mondo, per ritrovarsi a vagare solitario nell’Abisso. Harold Bloom, il più struggente gnostico contemporaneo, così descrive questa straziante scissione. “La crisi all’interno del Pleroma, la frantumazione della Pienezza originaria, deve essere stata un fatto scambievole: quando siamo precipitati in questo mondo creato dagli angeli inetti, precipitò anche Dio, discendendo non insieme con noi, ma in una sfera ignota, impossibilmente remota. Di kenoma ve ne sono (almeno) due, due vuoti cosmologici: il nostro mondo, questo, e le sfere invisibili, anch’esse create nel terrore, per dirla con Melville, nel suo capolavoro di puro gnosticismo Moby Dick. In quei luoghi desolati ora si aggira Dio, lui stesso un alieno, un forestiero, un esule, proprio come noi qui. Il tempo, un’ombra «invidiosa» (come la definiva lo gnostico Shelley), precipitò dalla Pienezza sul nostro mondo. Un’ombra altrettanto invidiosa, senza nome, volteggia sopra il Dio vagante dell’Abisso, non solo escluso da noi come noi lo siamo da lui, ma anche disperato senza di noi quanto lo siamo noi senza di lui .”

O, forse, ancor più radicalmente, Dio non si ritirò dal mondo ma deflagrò e disperse la sua pura luce all’interno della materia e del tempo, di quel tempo e di quella materia che degradano senza tregua la purezza della luce originaria. La scintilla che ognuno di noi conserva dentro di sé, in questa visione, che partendo dalla materia va oltre la materia (quello che, altrove, ho chiamato materialismo estatico), è una parte infinitesima di Dio che attende di ricomporsi, alla fine dei tempi, nel corpo celeste ora disperso. Una nostalgia di unità perduta che ogni essere vivente porta dentro di sé. È questo il divino destino del vivente.

Come falena inconsapevole del futuro che la aspetta, lo sguardo umano è attratto dalla luce e si consuma in essa. Per un breve istante. Giusto il tempo della durata di una candela (Quanto dura una candela). Ad attenderlo nessuno sa se vi sia il buio eterno o il ricongiungimento con l’unità di un’eterna luce.

Federico Ferrari

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